Nuomero zero e numero definitivo
"IRENE E ARCANGELA"
Siamo a Firenze, ai giorni nostri. Si accendono sulla scena luci colorate, di taglio e a pioggia. Appare l’interno: d’una bottega da pittore. La pittrice e poetessa Irène Duclos Parenti è seduta di spalle sopra uno sgabello al centro del palcoscenico che declama, tra se e se, alcune sue rime anacreontiche.
VOCE FUORI CAMPO DI IRENE: Figlia mia adorata, come posso raggiungerti? Tu sei così lontana ed io sono sola qui che sto morendo in questa stanza tutta bianca. Sono stata io stessa che l'ho dipinta così. La vita che di per sé è varia e colorata, io, come poetessa e pittrice, l'ho vissuta ancora più particolarmente variegata e totalmente a colori: ho perfino dipinto, nei miei versi, con i colori dell'iride, le ali bianche d'Amore il mio "capricciosissimo pargoletto", a imitazione di quelle d'una farfalla, "capricciosissimo animaletto; la morte, che invece è cupa e vestita di nero, ora la voglio attendere nella luce splendente del bianco. Quel bianco che poi, in fondo, li contiene tutti, i colori. Come è stato con tuo fratello, neanche a te posso dare l’ultimo bacio di mamma. Piccola mia, perché mai m'è stata riservata una sì crudele sorte? Morire sola, abbandonata da tutti! Ti prego, tu almeno, fa sì che la mia memoria non vada persa completamente! Ricordi il ritratto che ti feci e che tanto piaceva ad entrambe? Anche quell'immagine di te si trova lontano da me, a Varsavia. La vendetti, quella tela, ricordi? Preoccupati che ne abbiano cura. Ho saputo che il Principe Primate polacco che l'acquistò è morto lo scorso anno. Tu non lasciare che quel dipinto vada distrutto o trasferito chissà dove. Non permettere, in genere, che tutta la mia opera venga sepolta con me. Ho avuto contatti con così tante persone di cultura sulla terra, ancora viventi, ma anche già trapassati, che non vorrei sentirmi sola e abbandonata nell’altro mondo. Non farti scrupoli d’essere opportunista. Credimi, ogni cosa è regolata dall’opportunismo. La Natura stessa nel suo svolgersi s’attiene all’evoluzionismo! Quindi abbi cura soprattutto di te stessa, amore mio, tu che poi in fin fine sei il ‘mio vero, grande capolavoro...!’
IRENE: (Voltandosi di scatto) Sarò breve. Qui, in quest’altro mondo nessuno è mai libero di muoversi, di comportarsi. E comunicare con qualcuno è difficilissimo. Dappertutto sono distribuiti custodi che ci controllano, a volte anonimi, mescolati tra di noi. Allora, adesso che ho l’impressione d’essere sola qui con voi, vorrei approfittare di questa occasione unica per provare a dissipare ogni vostro dubbio sulla mia vita e sulla mia natura di donna e di artista. Ma non credo sarà facile. Dopo chissà quanto tempo dalla mia morte, potrei addirittura fare confusione circa la cronologia e l’esposizione dei fatti. Devo premettere che qui, in quest’altro mondo, dove non regna il tempo, sogno e realtà si alternano nella nostra mente e spesso si mescolano tra di loro. Così la nostra immaginazione e la nostra fantasia viaggiano continuamente a briglie sciolte. Sulla terra, dove invece il tempo confonde la mente in un’altra maniera, accade il fenomeno contrario: che spesso si è propensi a credere..., (Si alza in piedi e voltandosi di spalle) si è inclini a credere..., sì, a credere..., (Si volta di nuovo verso il pubblico) a non credere!? Si crede, si pensa. E così la giovinezza passa. (Mostra una tela dipinta ad olio: l’Autoritratto di Arcangela Paladini) Ne sa qualcosa lei, Arcangela Paladini, che fu condannata a vivere tutta una vita nell’arco della sola giovinezza. (Urla, facendo un giro su se stessa, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Poi da sopra un cavalletto prende una tela con l’autoritratto di Arcangela Paladini. Lo guarda e lo mostra al pubblico) Non è stato così? (Rimette a posto quel ritratto e mentre lo osserva) Tu però, Arcangela, per quanto riguarda la tua arte, devi riconoscere, sei stata favorita dalla sorte. È vero, sei vissuta nel Seicento, un secolo e mezzo prima di me! Ma tu hai ricevuto ogni bene e ogni beneficio in anticipo, per poter dare poi. Io invece ho solo offerto la mia conoscenza e la mia esperienza, acquisite a dura fatica, finanche le mie sostanze, senza aver mai ricevuto né beni né benefici dalla vita, senza mai aver ricevuto compensi spontanei: con tutto quello che ho donato agli uomini che ho amato! O quello che ho saputo dare alla mia allieva preferita Emma Greenland! Quando poi non sono stata più in grado di dare o nessuno aveva più bisogno di me, allora mi sono chiusa in me stessa, senza ricevere un benché minimo sostegno da chicchessia. E ne ho conosciuti di egoisti! Ce ne sono di tutte le risme al mondo, di egoisti. Di quelli che puoi ricoprire d’oro, ma che non sarebbero mai disponibili nei tuoi confronti, per nessuna ragione. Qualche volta mi son sentita morire. Ebbene, nulla da fare, non c’era nessuno disposto ad assistermi. Se qualcuno poi è comparso, questi era un estraneo, che passava di lì, così, per caso. Ecco quindi perché oggi sono arrivata alla conclusione che anche nel privilegiato ambito dell’amore o dell’arte, il mondo è dei cosiddetti furbi. Allora voglio cambiare mondo, cambiare universo, fatemi scendere da questa carrozza, fermatelo questo mondo, questo universo! Fermatelo, devo cambiare mezzo di locomozione, devo cambiare direzione, cambiare mondo, cambiare universo! Immaginereste che neanche i miei genitori mi hanno mai capita? Finanche mio marito, un temperamento artistico anche lui! Benché, devo dire, tutti loro mi abbiano comunque amato tanto. Il mio sposo era un gran signore, un perfetto gentiluomo, un uomo estremamente galante che sapeva, forse fin troppo, corteggiare una donna. Pensate, mi conquistò con un biglietto con su scritto “Ad una donna come voi, Madame, manca un solo dettaglio per essere perfetta..., un difetto!”, quella stessa galanteria che, devo dire, mi riservava il Principe Michele Poniatowski, Primate di Polonia, uno tra i miei estimatori e acquirenti più assidui il quale, oltre alle copie che, di volta in volta, mi andava commissionando, un giorno - in mancanza d’un mio ritratto -volle acquistare per sé, a tutti i costi, un ritratto di mia figlia, magari chissà, come ricordo di me. Emma, la mia allieva inglese prediletta invece, furbescamente ha carpito dovunque ha potuto: dai maestri, da Roma, da Firenze, dall’Italia..., da me. E poi traeva sempre profitti dai rapporti con gli uomini: “Sono così mutevoli oggi questi nostri amanti, che se non approfitti subito dei loro favori nel momento in cui hanno perso la testa per te, va a finire che poi ti ritrovi all’improvviso abbandonata e con un pugno di mosche in mano!” soleva dire. Capite l’astuzia di questa mia allieva! Alla fine se n’è tornata nella sua Gran Bretagna, per sposarsi felicemente con un vicario, per raccogliere ogni gloria da sola, ignorando in particolar modo me, quasi non fossi mai esistita, proprio me che a lei - una capace pittrice, non lo nego, ma disorientata, fuori dal giro degli artisti e dei mercanti d’arte che contavano veramente – l’avevo introdotta a Firenze e in Italia, nel complesso e sconosciuto mondo della pittura ad encausto. Appena s’è realizzata non ha saputo spendere una sola parola per farmi apparire nel suo saggio pubblicato sulla famosa rivista Society Transaction, non mi ha neanche menzionata nel suo curriculum quando ha esposto l’autoritratto alla Royal Academy of Art di Londra. Il suo successo è stato suo e basta! I geni raccontano soltanto la loro storia, non storicizzano! E loro che nascono geni, non si propongono, non si confondono con gli altri: amano essere scoperti, per essere considerati tali. Lei si sentiva un genio, anche se a me non è parso lo fosse. A suo dire si sarebbe fatta tutta da sola. Nessuno l’avrebbe mai aiutata. Alla fine neanche suo marito, il Reverendo Vicario Thomas Hooker di Rottingdean, un uomo potente, titolare d’una scuola per nobili rampolli, che, di tutta risposta, ella seppe ripagarlo con una trasgressiva storia d’amore, diventando, credo, almeno per un periodo, l’amante di Johann Christian Bach figlio del grande Johann Sebastian. Non è un caso infatti se questo compositore le dedicò “Sei Sonate”. Capite? Io dovevo scomparire dalla scena; perché io, a quel punto, per lei, potevo essere soltanto un testimone scomodo. A quel punto non aveva più bisogno di me! Anche se, quand’era ancora una ragazza, io l’avevo accolta in casa come una figlia. E la Storia? Neanche lei m’ha reso giustizia! Se oggi non ci fosse stato quell’Alberto Macchi, ricercatore silenzioso, altruista, imbecille come me, a disseppellirmi, dopo oltre duecento anni, malgrado tutto quello che ho fatto, sarei restata ancora immersa nell’oblio sia come pittrice che come poetessa, benché fossi stata Membro dell’Accademia des Beaux-Arts in Francia, e Membro dell’Accademia di San Luca e dell’Accademia dell’Arcadia in Italia. Lo so, è sconveniente per me dire certe cose e sgradevole per voi stare ad ascoltarle per bocca di una povera donna, irrisolta, un’artista fallita, che ora per giunta si sta manifestando logorroica come una vecchia pazza. Allora parliamo d’altro. Benché avrei da dire anche su Macchi. Questo drammaturgo che tutto d’un tratto s’improvvisa biografo, m’ha fatto passare, per una mangiatrice di uomini, per una che ha sconvolto la vita a più d’un abate gesuita, in particolare quella di Jacopo Vittorelli; quando invece in realtà io potrei essere stata una donna così timida e riservata che aveva fin troppe difficoltà a relazionarsi con gli altri. E poi questo teatrante ha stabilito che io dovessi essere un’italiana sposata con un francese. Non potevo essere invece una francese sposata con un italiano? Insomma secondo lui io dovevo essere figlia del Sig. Parenti e moglie del Sig. Duclos, quando poteva essere l’esatto contrario. Ed avrei avuto una sola figlia, quando invece potevo avere avuto anche un figlio, che si sarebbe arruolato poi nell’esercito di Napoleone. Mah! Queste cose, certo, possono capitare a chi si cimenta con le ricerche storiche. Sentite, per divagare un momento, voglio farvi ascoltare dei versi che però credo possano risultare familiari soltanto ai francesi; qualcosa che i parigini cantavano negli anni ottanta del Settecento, mi riferisco al Re di Francia Luigi XVI: “Louis si tu veux voir/bâtard, cocu, putain/regarde en ton miroir/toi, la reine et le dauphin!”, ovvero “Luigi se vuoi vedere un cornuto, una puttana e un bastardino/guardati allo specchio con la regina e il Delfino!” (Lunga pausa). Ritornando ad Arcangela Paladini, lei, ancora più di me, è stata penalizzata da Macchi. Per costui, infatti, questa pittrice e poetessa del Seicento, sarebbe morta, oltre che giovanissima, anche senza il sollievo d’essere diventata madre. Quando invece Arcangela nella realtà ebbe due figlie, Maddalena che intraprese, come sua madre, la strada del canto e Neera, una creatura dolcissima, che sposò un noto personaggio di Firenze, tale Giuseppe Verdi. Ma, tornando a me, è bene che si sappia: io non sono stata soltanto una copista! Non ho copiato soltanto Guido Reni, Andrea del Sarto, Guercino, Raffaello, Zoffany, Tiziano ed alti. Anzi approfitto ora di questa forse unica opportunità che ho di parlare e lo dichiaro qui davanti a questa platea: io ho realizzato ad olio, a pastello o ad encausto, anche in miniatura, parecchi dipinti originali, come gli autoritratti, il ritratto di mia figlia, quello di vari personaggi italiani e stranieri, da Guido III Villa a Joseph Eckhel, paesaggi, teste e statue ispirate ad antiche sculture, Cleopatra, Polimnia, … E, prima di scomparire dalla vostra vista, ribadisco: “La mia breve esistenza terrena non è stata allegra e spensierata, fatta di soli amori e di seduzioni!” (Scena tratta dal dramma teatrale “Irène Duclos Parenti e Arcangela Paladini Broomans”di Alberto Macchi, Roma 2012, articolo pubblicato su "Gazzetta Italia" di Varsavia nel giugno 2013)
SCENA QUARTA: PREGHIERA - Duomo di Orvieto. Durante una pausa della lavorazione agli affreschi nella Cappella di San Brizio, frate Angelico si rivolge a Dio. Anno 1447.
BEATO ANGELICO: Padre Nostro che sei nei cieli, non m’abbandonare. Ho bisogno costantemente di Te, come tua creatura e come indegno fraticello predicatore “Osservante” di San Domenico. Abbiamo tutti bisogno di Te su questa terra, Signore Gesù Cristo. Particolarmente oggi, a più di quattordici secoli dalla Tua venuta, la gente ha bisogno di spiritualità. E lo sta dimostrando in tutti i modi. Con la confusione che regna ovunque per lo scisma della Tua Chiesa e per l’insorgere degli Antipapi e dei Patriarchi. Il Vaticano s’arricchisce di opere d’arte e costruisce nuove chiese, mentre il papa lotta con tutte le sue forze per riconquistare l’unità della Chiesa. Eppure, malgrado tutto ciò, Signore Iddio, la gente non riesce a ritrovarTi. Padre Nostro che sei nei cieli venga il Tuo regno! La mia ascesi serena e austera, assieme alla mia arte pittorica io la sto dedicando a Te, Signore. Come pure la mia preghiera, assieme alla contemplazione delle cose divine. Ma è ben poca cosa tutto questo. Lo so. Qualcuno va dicendo che con il mio linguaggio io raggiungo nel profondo gli spiriti, che li muovo a pietà, che ho saputo trasformare l’arte in preghiera. Ma come sarebbe stato possibile tutto ciò, se poi è vero, senza l’intercessione di San Domenico presso di Te? Sei Tu che mi hai eletto uno strumento nelle Tue mani. Di una cosa sono certo: io sto con Te, mio Dio. Spero di far parte del Tuo esercito, spero di contribuire a sconfiggere il Male. Per adesso sono soltanto un peccatore presuntuoso. Non sono ancora quello che vorrei essere, Gesù, giacché sono assoggettato come ogni Tua creatura agli impulsi dei sensi, agli efflussi, come lo furono San Paolo o Sant’Agostino e lo sono e lo saranno tutti gli uomini e i santi terreni ancora. Ma ci sto mettendo tutto l’impegno per poter essere quello che vorrei essere: un uomo senza vincoli, scevro da condizionamenti terreni, un artista ispirato, sempre più libero d’esprimere quell’arte che avvicina al Cielo. Gloria a Te Signore, così misericordioso. Aiutami ad alimentare la fede con la Grazia dello Spirito Santo. La mia visione personale del mondo, di questo mondo di roghi, di patiboli, di croci, ma anche di pulpiti, è la gioia dell’Annunciazione. Signore misericordioso non ci abbandonare. Proteggi il potere della Tua Chiesa, illumina i tuoi ministri, liberaci dai falsi ministri; soffriamo già abbastanza del funesto potere temporale. Ti chiedo di ispirare gli artisti, di proteggerli perché sono loro che possono diffondere il Tuo Verbo. Ma sono costoro, persone tanto sensibili e vulnerabili, a volte incapaci d’implorarti, altre volte timorose. Il pittore spesso è consapevole della propria insufficienza. Basti pensare alla limitatezza della sua arte. Chi può esprimere ad esempio, col pennello, il concetto dell’eternità e dell’infinito? Il Tuo nome? Padre Nostro che sei nei Cieli sia santificato il Tuo nome. Venga il Tuo Regno, sia fatta la Tua volontà, come in Cielo così in terra. E liberaci dal male, così sia!
Scena
terza: EPILOGO - Una stanza, un letto con sopra un uomo disteso: è Cristoforo
Colombo, solo, abbandonato da tutti, stanco e malato. Una luce a pioggia
s’accende sul suo capo. Parte una musica. Siamo a Valladolid in Spagna. È il 20
maggio dell'anno 1506.
COLOMBO: (Mentre si alza a fatica) E poi adesso questa diceria che sarei
figlio di Giovan Battista Cybo di Genova; figlio d’un papa! (Ride) Io figlio di Innocenzo VIII! (Riprende a ridere) E quante altre
ancora ne ho sentite sul mio conto! Come, ad esempio, che per affrontare il mio
primo viaggio avrei utilizzato una carta geografica risalente al 1485 di un
certo cartografo turco di nome Pivirei o Klivirej …, ora non ricordo, dove
sarebbero state già raffigurate e descritte le nuove terre. Mah! Lasciamo
stare, è meglio sorridere …. Ecco tutt’al più potrei ammettere che chi mi ha
ispirato ad intraprendere il primo viaggio sia stato Marco Polo; dopo che ebbi
letto il suo “Milione”; questo sì! (Lunga
pausa) Mio fratello Bartolomeo, mio padre Domenico, mia madre Susanna, mia
moglie Felipa, la mia compagna Beatrice, mio figlio Fernando, le mie avventure
per mare, oggi tutto m'appare vano, così come vana è la vita! (La musica svanisce) Ho sposato Felipa
perché l'amavo, ma poi nella realtà ho vissuto accanto a Beatrice. Ho procurato
inimmaginabili ricchezze alla Spagna, per morire nella miseria. Ho scoperto una
nuova terra, quasi un paradiso, per doverlo abbandonare e per lasciarlo abitare
agli altri. (Pausa) Però, a pensarci
bene, una cosa duratura, vera e benfatta, c’è stata nella mia vita: l'Amore. Il
sentimento dell'Amore! Quindi che sto a lagnarmi! (Lunga pausa) Re Ferdinando con la sua fredda accoglienza al mio
ritorno in Spagna, dopo che avevo affrontato anche una lunga malattia durante
il mio ultimo viaggio, è stato lui che m’ha portato a riflettere, a pormi certi
quesiti, a ricercare dannatamente il senso della vita. Così, come reazione, per
prima cosa ho incominciato ad evitare gli altri chiudendomi in un paradossale
isolamento. E mi sono fermato a considerare la vanità e la vacuità di tutte le
cose. Risultato, che ora sono qui, solo, dimenticato da tutti, in precarie
condizioni economiche, fisicamente e moralmente distrutto; qui a Valladolid,
dove non mi resta che lasciarmi morire, possibilmente in grazia di Dio. Sì,
perché Dio, poveretto, in questa faccenda non centra. La colpa è tutta della
Vita. Perché la Vita è così. Lei è come una bella signora, ti entusiasma, ti
seduce, ti eccita, ti lascia credere, poi, quando meno te l’aspetti,
t’abbandona …, quantomeno t’abbandona a te stesso. Anche mia madre, lei che mi
ha messo al mondo, come la Vita, anche lei mi ha abbandonato, forse per seguire
sua madre nell'aldilà. La Vita insomma è una bella promessa che prima o poi ti
delude. Ma credo che se guardassimo di più, invece di vedere soltanto, chissà,
forse non incorreremo in certe delusioni, in certe sorprese. Invero io sono
stato una persona entusiasta di vivere, curiosissimo, tenacissimo, eppure ecco
che ad un certo momento – anche se con qualche ritardo e forse con un po’ di
riguardo rispetto alla massa degli altri esseri umani – la vita alla fine mi si
è parata davanti in tutta la sua crudezza per annunciarmi che il tempo mio è
trascorso. Ho settantacinque lunghi anni alle spalle, è primavera, stagione in
cui tutta la natura si risveglia e io dovrei addormentarmi, per abbandonarmi
alla Morte? Quando mi spingevo per mare verso l’ignoto, un giorno, ricordo,
ebbi la percezione che la Morte dovesse essere un po’ come la mia meta.
Infatti, vicina o lontana che fosse, essa era lì davanti a me ad aspettarmi. Ma
anche allora, appena fui in vista della terra, volli illudermi e sperai in
altri approdi successivi, in un mondo infinito, con infinite mete. Eppure
sapevo che il mondo è una sfera, che il mondo è finito. Una volta ultimata la
circumnavigazione si torna al punto di partenza, come la Vita che, con la
Morte, in un certo senso ti riconduce alla Nascita. Insomma, avevo sfidato la
Vita e la Morte insieme, le mie potenzialità e l’ignoto contemporaneamente!
“Però un uomo come me, al servizio della Spagna, al servizio del mondo intero,
non può morire, non deve morire, non morirà mai!”, mi andavo ripetendo. Invece
eccomi qua, senza forze, senza volontà, vecchio, che sto morendo. Questa
stanza, questo letto, queste stoffe di velluto rosso, sento che saranno
fatalmente la mia tomba. Qui, costretto fra queste mura, lontano dal mio
oceano, dovrò lasciare questo mio mondo, solo, abbandonato da tutti. Ho avuto
sempre un rapporto difficile con la realtà, avendo troppa fantasia e spirito
d'avventura. E ora vorrei illudermi che non morirò. Ma mi sento come svuotato.
Un tempo, quando avevo qualche problema nel rapporto con la mia donna, con le
persone in genere o col Cielo, allora mi dicevo: “Se ci sono i problemi, allora
non c’è la coppia, allora non c’è l'amicizia, non ci sono io, non c’è Dio”.
Erano tutte elucubrazioni mentali, è vero, però esprimevano desiderio di
vivere, di lottare per risolvere quei problemi. Oggi invece non temo nulla, non
credo più a niente! Vivo nell’equanimità della mente, quella mente che so bene
che mente sempre e che mente soprattutto a quella parte di suoi possessori non
educati a certa volontà di superare le proprie tendenze negative, che
rincorrono l’altra volontà, quella di superare difficoltà concrete al solo
scopo di realizzare cose materiali; quella mente che, essendo appunto mentale,
fa fatica ad affidarsi al sentimentale, allo spirituale. Però oggi, devo
confessare, ho paura dell’ignoto, quello stesso ignoto che una volta invece
m’affascinava e che ha stimolato tutta la mia vita. (Considera) Si nasce, si conosce, ci si conosce, si muore. Sì, si
muore quando si acquisisce consapevolezza che la vita è di per se una
sconfitta, una sorta d’espiazione. E rivedo le onde immense dell'oceano, la
luce accecante del sole, il buio ossessivo delle notti, le terre lontane, i
gabbiani, l'azzurro, le albe, i tramonti, la disperazione e l’euforia riflesse
negli occhi dei miei compagni di viaggio. E riodo le loro grida di paura, le
loro urla di felicità, le loro sbornie, i rumori del mare, del vento, delle
tempeste, dei remi, del legno, delle vele, i lunghi, infiniti silenzi. E
risento il forte odore del mare, la brezza sulle membra, il sapore del sale
sulle labbra, il panico improvviso, l’estrema felicità, il caldo soffocante, il
freddo insopportabile. Ed eccomi ad elemosinare presso le Corti di Spagna e di
Portogallo; ecco l’estrosa regina Isabella, i fratelli Pinzon, l'ago della
bussola che, così d’improvviso, impazzisce e che mi disorienta l’anima, la
testa e i nervi, ecco la Stella Polare, l'amico Diego, l'ammutinamento, ecco
quel venerdì 12 ottobre la terra, l’isola di San Salvador e Cuba, l’amaca dei
selvaggi, i selvaggi che fumano, i loro pappagalli, l’oro; la fuga di Pinzon,
la Santa Maria incagliata e Diego che resta a governare le terre conquistate. I
selvaggi deportati in Spagna come schiavi. Me incatenato, rimandato in Spagna
insieme a mio fratello e umiliato davanti ai miei compagni, la conseguente mia
perdita del titolo di Viceré delle terre conquistate, la rinuncia forzata ad
ogni ricchezza, il mio totale disfacimento. A nulla è valso avere dignità,
orgoglio, rispetto e attenzione per gli altri! È valsa soltanto l’acquisizione
dell’idea della vacuità e dell’illusione di tutte le cose, sensazione quest’ultima,
che ci occorre per esorcizzare la morte, per tutto il tempo che siamo impegnati
a trascorrere questa maledetta esistenza. Per esorcizzare appunto la morte,
quella stessa morte che fin dalla nascita mi ha sempre condotto per mano e che
non mi mai abbandonato e che non abbandona tuttora neppure per un attimo,
neppure adesso che, sconfitto, sto lasciando la vita. (Ripiomba sul letto, senza più vita. Le luci si spengono. Parte la
stessa musica di prima)
0.043 - 15.1.15
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